Cinque anni dopo quella tremenda seconda scossa che ferì per sempre le nostre città e costò la vita a 20 persone, crediamo che molto in Emilia-Romagna sul tema della ricostruzione sia stato fatto ma che tanto ci sia ancora da fare. È vero quello che ha detto il Presidente della Repubblica: “La cultura del lavoro e dell’impegno trasmessa di generazione in generazione ha reso questi territori capaci di affrontare le difficoltà“. L’Emilia-Romagna è da sempre una terra operosa, laboriosa, che davanti alle difficoltà invece che sedersi e lamentarsi si rimbocca le maniche e cerca di ripartire. L’ha fatto dopo il 20 maggio del 2012, ha continuato a farlo anche con più determinazione nove giorni dopo quella prima scossa.
Per questo crediamo sia stato profondamente inopportuno da parte di chi ha governato e sta governando questa Regione, da Errani a Bonaccini, aver trasformato l’indole di un’intera popolazione in una vittoria politica di parte. Un risultato di una gestione della ricostruzione che invece, come molti dei cittadini sanno molto bene, è stata sempre contraddistinta da un’infinita burocrazia e da procedure ingessate. Tutto il sistema della ricostruzione è avvenuto, e sta avvenendo, attraverso procedure informatiche che non sono immediatamente accessibili a tutti e che spesso hanno costretto i cittadini a rivolgersi a tecnici specializzati per venirne a capo, generando così ulteriori costi che si sono andati a sommare su condizioni economiche già precarie. Ecco perché avevamo chiesto, purtroppo invano, di istituire una struttura che potesse fare da garante in queste situazioni. Una soluzione che la Regione dovrebbe ancora tenere in considerazione visto che il lavoro da fare, nonostante la retorica governativa, è ancora molto.
Si pensi ai nostri centri storici: come ha dovuto ammettere anche lo stesso presidente Mattarella, sono ancora fermi al palo. Imbrigliati da cantieri e ponteggi infiniti, resi deserti da centinaia di attività commerciali che per necessità di sopravvivenza hanno dovuto trasferirsi, andare altrove. Si è detto che è stato giusto ripartire da aziende e scuole, dando loro priorità. Ma le inchieste che sono nate su questo tipo di ricostruzione “prioritaria” non ci devono di certo tranquillizzare. L’inchiesta Aemilia, quella sul cemento depotenziato, hanno dimostrato che il tanto decantato modello emiliano ha fatto acqua, soprattutto quello legato ai controlli e che avrebbe dovuto tenerci al riparo dalle infiltrazioni delle organizzazioni criminali. La ricostruzione dei centri storici, seppur avviata, merita di essere portata a termine al più presto. Non si può più aspettare. Altrimenti tra cinque anni quello che non avrà distrutto il terremoto l’avrà fatto l’incapacità di chi ci sta governando.
Resta poi il pesante tributo in termini di vite umane che la nostra regione ha dovuto pagare: 20 morti, quasi tutti lavoratori, che ritornarono in quel maledetti capannoni animati proprio da quello spirito a cui facevamo riferimento prima. A distanza di 5 anni da quel giorno bisognerebbe interrogarsi se quel sacrificio era evitabile. Perché non c’è mai stata una Commissione grandi rischi subito dopo la prima scossa del 20 maggio? Perché nessuno, pur conoscendo che le nostre zone industriali non erano di certo state costruite con criteri antisismici, ha pensato che non c’era l’adeguata sicurezza per far ripartire le attività economiche? Perché si continua ad accettare che le famiglie di quelle stesse vittime oggi debbano accontentarsi di un misero risarcimento INAIL? Il minimo che si possa fare è garantire a queste persone un risarcimento almeno dignitoso.
Giulia Gibertoni